domenica 20 novembre 2011

Caro Amore, ti scrivo. ©
Di Margherita Sgorbissa
Qui è tutto buio, la mia stanza è stretta e la luce del sole è qualcosa che ormai brilla solo nei ricordi.
Mi vengono in mente le piogge dorate di foglie, quando le acacie a ottobre perdevano i loro appassiti gioielli e noi li calpestavamo noncuranti di tutta la sofferenza che dovevano provare, adagiati nella loro decadenza. Poco più in là il lago, immerso in un mesto silenzio, come se il mondo attorno si fosse cristallizzato davanti a noi. Per noi.
Già allora, fra un sussurro e l'altro, senza interrompere il vento nel suo canto autunnale, ti chiedevo di amarmi e lasciarla stare, una volta per tutte. Mi fidavo di te, della tua forza e della tua volontà. Sapevo che c'era qualcosa di più grande dentro di te e dentro di noi, che potesse superare la mediocrità di un vizio, di un effimero piacere. Un piacere che nei tuoi occhi, e poi nei miei, si specchiava subdolo, strisciante, infimo.

Mi ero accorta di voi due quand'era già tardi. C'erano sere in cui ti fermavi fuori fino a tardi, a volte nemmeno tornavi a casa, quelle in cui telefonavo a Luca, a Stefano per sapere se ti eri fermato da loro e mi rispondevano con quelle voci confuse, stordite, imbarazzate.
Tu non riusciresti a capire nemmeno ora tutta la mia frustrazione, la mia rabbia nell'essere lasciata da sola, in quella casa buia, fredda, talmente desolata da sentire i vicini russare nell'altra stanza e pregare che il mattino dopo ti avrei trovato in cucina, almeno sano e salvo.
Ma tu la volevi, la cercavi. La bramavi come fosse la sintesi di un'immensa libidine, come se nell'averla affianco riuscissi a trovare il segreto di questa vita che tu credevi complicata, persino insensata a volte. Me lo dicevi e io stavo lì, pensavo a lei, cercando un modo per eliminarla per sempre dalle nostre vite, dalla tua per primo.

Poi hai cominciato a portarla a casa.
Era lì, nella nostra cucina, inerte, meschina. Dicevi che non sapevi dove portarla, non aveva un posto sicuro dove stare. Sarebbero venuti a prendersela prima o poi, ma chi?
Ti chiudevi nel bagno per ore, mentre io fuori urlavo, piangevo perché sapevo e ti scongiuravo di smetterla.
Tu uscivi con quel sorriso sghembo, rotondo, gli occhi velati da una strana contentezza. Mi faceva vomitare. Sbattevo le porte, spaccavo i bicchieri, perfino ti colpivo il petto con dei pugni rassegnati, deboli, ma tu quell'amore non lo sentivi. Lei lo filtrava altrove, chissà dove. Tu il mio dolore non lo vedevi, i miei occhi stanchi, supplicanti erano un gioco, uno scherzo visivo, un piccolo dettaglio scomodo.
Poi fu il periodo della tua puntualità. Alle nove eri a casa. Anzi, rotolavi a casa. Raccoglievo la tua stanchezza, asciugavo l'orlo della tua bocca sporca di saliva, assecondavo i tuoi deliri. Ti prendevo il colletto della polo con due mani, ti sbattevo la testa contro il tappeto quelle volte in cui facevi perfino fatica a stare seduto e con una collera contrita, ti intimavo di smetterla. Te lo ricordi questo, amore?
Lei doveva uscire dalla tua vita, pensavo, doveva tornare al suo posto, lontano da noi. Ma mi baciavi, tu. Ridevi, tu. Mi amavi, tu? Che stupida, a credere che in quel sesso tossico e ipocrita, si nascondesse la nostra felicità. La nostra forza, la nostra seconda ed ennesima possibilità.

Amore, ti ricordi quando hai cominciato a chiedermi di giocare con voi? Una cosa a tre! Che bellezza ti doveva sembrare, quella di me assieme a lei, una dentro l'altra, vicine, in un'estasi eccitante, in cui ci saremmo potuti perdere assieme, nel vorticare di una totale assenza di sensi, di realtà, di vita.
Perdonami per quello schiaffo, avrei potuto risparmiare le mie energie per dopo. Perdonami anche per averla presa e sbattuta fuori di casa, con violenza. Non avrei voluto farti arrabbiare, darti la pena ti prendermi le braccia, scuoterle con forza, sbattermi a terra, minacciarmi con i tuoi pugni ad un centimetro dal viso. Perdonami, amore, per quell'ulteriore seccatura. Ora ammetto che me la sarei potuta risparmiare. Per dopo.

Quel giorno arrivasti a casa. Avevi la pazzia che balenava negli occhi sgranati. Ti passavi una mano sotto il naso, ogni dieci secondi, istericamente. Sei entrato a casa urlando il mio nome, prendendo la tovaglia con il mio piatto e il mio bicchiere ancora sopra e hai spaccato tutto a terra. Hai rovesciato le sedie, gettato a terra la borsa, la pianta di mia madre, le pentole sui fornelli. Hai spalancato il frigo, amore. Hai persino mandato in frantumi la nostra foto della Spagna. Amore.
Hai fatto un buco con un pugno contro la porta che avevo decorato per te. Sei salito lungo le scale e il mio cuore batteva all'impazzata, amore, perché da come stavi sbraitando lei era sparita, qualcuno te l'aveva portata via. O forse qualcuno ti aveva scoperto con lei, amore? Qualcuno aveva preso i vostri nomi e li aveva inseriti assieme in un registro inopportuno?
Dal tuo farfugliare non capivo niente, da quella nausea che stava sconvolgendo i miei sensi non capivo niente. Tenevo le mani strette sul ventre, perché là dentro sentivo qualcuno agitarsi, forse anche lui aveva sentito qualcosa.
Ero incinta, ma tu non lo sapevi ancora, amore. Perché tutte le volte che avrei voluto dirtelo, lei era con te, dentro di te, nel tuo sangue, nelle tue vene, nel tuo cervello, nel tuo cuore, nei tuoi occhi ormai inumani, irrazionali, assopiti da qualcosa di più grande, più devastante di quell'amore che mi avevi dimenticato, per poi scomparire nel suo oblio.
Avevi una sedia in mano, alzata a mezz'aria, traballante verso di me.
E io lo sapevo che mi avresti dato la colpa se lei se n'era andata. Era colpa mia, io te l'avevo portata via. Il male ero io, la fine ero io, la colpa ero io.
Ma era troppo.

Non volevo premere il grilletto, amore, te lo giuro. Non volevo che quel piccolo proiettile ti perforasse la fronte, non volevo vederti immobilizzare da un colpo così netto. Io ti amavo, ti ho amato in tutto questo lungo e drogato tradimento. Ti ho offerto il mio aiuto, il mio sostegno, la mia presenza. Persino tuo figlio era lì in grembo con me, per te.
Ma tu volevi uccidermi per lei, per quella polvere bianca che ti entrava dal naso e poi nelle vene, nel cervello, nel sangue, nel cuore, togliendo il mio spazio, togliendo l'ossigeno della ragione, dell'amore, spezzando via il profumo delle acacie dorate, il canto del vento mite, il silenzio del lago, in tutta la sua bellezza.
Ti avevano scoperto, te l'avevano portata via, la cocaina.
Eri spacciato, da lei, per lei, con lei.
Ti aveva distrutto. Ti eri distrutto.

Caro Amore,
ti scrivo. Qui nella mia cella è tutto buio, la mia stanza è stretta e la luce del sole è qualcosa che ormai brilla solo nei ricordi.
Fra tre mesi mi porteranno all'ospedale, darò alla luce Francesco e attuerò le pratiche per l'adozione.
Se tutto va bene, il giudice mi riconoscerà l'instabilità mentale e potrò uscire da qui.
Villa Santa Chiara è già pronta per accogliermi, con le sue terapie di recupero, le pillole, la calma. La vita. L'amore? Chissà.

Che Dio ti abbia in gloria amore mio, ora che lei se n'è andata e tu con lei, il Sole nuovo che vedrò all'uscita da qui sarà il più bello di sempre.
Ti amerò per sempre,

 Tua Serena.

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